Nei censimenti fatti nelle corti presiedute, dal conte di Lemos nel 1653, mentre imperversava nell’isola la peste, dal duca di Monteleone nel 1688, e dal Montellano nel 1698, si notavano per i seguenti paesi i rispettivi numeri di fuochi
1653 (fuochi) 1668 (fuochi) 1698 (fuochi-maschi-femmine)
S. Gavino 212 404 391 876 835
Sardara 228 339 403 815 806
Guspini 188 431 413 1052 953
Gonnosfanadiga 121 205 250 630 617
Arbus 102 258 265 655 627
Pavigionis 110 152 105 264 238
Uras 78 158 186 402 378
Terralba 56 211 217 453 446
Arcidano 0 56 82 157 137
I pericoli, le angarie e tutti i generi di vessazioni feudali, la difficoltà di vivere, la speranza di far fortuna in altro luogo, lo stabilimento di famiglie estere, il ritorno degli emigrati, le epidemie ec., sono state alternatamente le cause del movimento irregolare, ora in progresso, ora in regresso, che osservasi nella popolazione, sì nel secolo XVII, come in questo secolo XIX.
Nell’anno 1846, quando la popolazione era di anime 2646, queste erano distinte, in maggiori d’anni 20, maschi 832, femmine 854, in minori, maschi 471, femmine 489, e distribuite in famiglie 635.
Per il movimento della medesima si possono tener come quantità medie annuali, nascite 95, morti 70, matrimonii 25.
L’ordinario corso della vita è alli 60 anni: molti arrivano agli 80, ed alcuni di forte temperamento e che si abbiano cura, si approssimano al secolo. Le malattie comuni sono: nell’inverno, infiammazioni di petto per brusco cangiamento di temperatura; nell’estate, febbri gastriche per abuso di frutte immature; nell’autunno, febbri intermittenti e perniciose.
Devesi poi notare, che oltre ai detti malori, che sono generali nell’Isola, i Sangavinesi sono soggetti alle ernie ed alle ostruzioni.
Le epidemie del 1812-16-18, che peggio che in altre parti furono mortifere in Sangavino, tolsero alla popolazione più di 300 anime sopra l’ordinario numero della mortalità.
Dal notato infelice temperamento comune nasce quella certa indolenza, che è nel carattere generale, la tardità nell’agire, e la pochissima vivacità.
Migliori mangiatori che bevitori, sono assidui ne’ loro lavori soliti, ma poco industriosi e solleciti d’avvantaggiarsi.
Si potrebbero lodare religiosi, se fossero illuminati per la istruzione; ma la istruzione essendo troppo scarsa, nè accomodata a scuotere dalle menti certi antichi errori, certi pregiudizi, anzi sostenendosi questi da certuni che hanno interesse nella esistenza dei medesimi, si deve riconoscere la superstizione in vece della religione.
Molti di questi paesani credono ancora nella magia, e credettero facilmente ad un impostore, il quale avea imparato da una donnaccia, che fingevasi ossessa, a rappresentare l’energumeno; e quello che era peggio, e pare incredibile, dicevasi diretto da un prete d’una vicina parrocchia (Sellori??), anzi operante d’accordo con lui, col quale dividea le offerte che gli erano presentate dai gonzi che andavano a consultare il suo oracolo diabolico.
Qui non disgradirà il lettore che dica alcune parole su la donna, dalla quale costui era stato ammaestrato a fare l’indemoniato.
Costei, che abitava in un paese dello stesso dipartimento (Gonnosfanadiga??), sapendo alterarsi in modo strano, perchè potea gonfiare oltremodo il collo e il petto, prendendo un aspetto di invasata, e sapendo variar la voce in molte maniere, perchè imitava gli accenti di persone diverse, si confessò soggetta agli spiriti infernali, e fece per molto tempo la pitonessa, ingannando le persone semplici e vendendo le risposte. I preti più savi e pii gridarono contro l’impostura, ma alcuni sciocchi ed empii si mostravano creduli, faceano esorcismi, magnificavano le loro lotte co’ diavoli, il coraggio di se soli contro legioni, e raffermavano negli animi l’errore. Il vescovo Vargiu non volle soffrire questo scandalo e frode, obbligò la menzognera a confessare in pubblico le sue male arti per ingannare e per arricchirsi delle offerte; ma non andò gran tempo, che, stimolata dalla cupidigia de’ suoi lucri turpissimi, tornò all’antica consuetudine, a rappresentar la sibilla, ed a rispondere con frasi ambigue agli stupidi interroganti, ora nella voce d’una persona, ora in quella d’un’altra, come se diversi spiriti parlassero col suo organo, attemperandolo ciascuno a sè.
Date le risposte la furba si calma, e ritornata a se stessa fa come quelli, che, destandosi dal sonnambulismo magnetico, si mostrano ignari di ciò che han detto, interroga su le risposte degli spiriti, ed avverte quei semplici a non dar intera fede al diavolo, perchè il diavolo si piace talvolta a mentire, ed ingannare gli uomini, essendo padre della menzogna.
Per la notata ignoranza delle dottrine della chiesa, per semplicità o connivenza di alcuni sacerdoti, e per frode di altri, non pochi di questi popolani, come deve pur dirsi di altri d’altre parrocchie, hanno una gran fede in certi brevi (scrittus), che si scrivono da certi preti e frati, lodati di sapere cose arcane, e si portano addosso, o si collocano in qualche parte del predio o della casa, per scongiurare malattie, offese di nemici, mali accidenti fortuiti, e sviare ladri. Ho parlato di frode, ed è vero che certuni, che si fan beffe tra gli amici della credulità de’ semplici, mantengono queste superstiziose credenze per satisfare alla loro avarizia.
Professioni. Queste sono l’agricoltura, nella quale si esercitano, tra grandi e piccoli, non meno di 750 popolani, la pastorizia, alla quale sono dedicati forse 60, i mestieri che si praticano da circa 70 persone.
Questi mestieranti sono, sarti 10, bottai 12, falegnami 9, scarpai 10, ebanisti 6, fabbri ferrai 7, muratori 12, vasai e fabbricatori di mattoni 15.
Sono quindi a notare, preti da 10 a 12, frati da 15 a 20, persone di tribunale 4, avvocati 4, notai 4, pro-curatori 8, infine medici 2, chirurghi 3, flebotomi 4, farmacisti 1, un medico e chirurgo distrettuali.
Proprietarii. Sono rarissimi che non possedano almeno la casa che abitano; ma non si dicono possidenti se non quelli i quali possedono qualche porzione di territorio, o del bestiame, ovvero abbiano proprio un carro co’ buoi.
La proprietà territoriale, come accade in tutti i paesi di pianura, è troppo disugualmente distribuita, perchè alcuni pochissimi possedono estesissimi fondi con molto bestiame, un quarto delle famiglie non ha alcuna parte nè di terre, nè di bestiame, gli altri godono d’una fortuna diversa: ma in generale si può dire che i benestanti, cioè quelli che vivono in agiatezza, e poco patiscono negli anni di disdetta, non sono più che un decimo delle famiglie.
Distintamente i proprietarii sono tra i 450 ed i 500, le famiglie povere da 70 ad 80, le indigenti da 40 a 50.
I non possidenti fanno sevizio ai proprietarii nel-l’agricoltura e nella pastorizia.
Tra’ maggiori proprietarii sono a notarsi due famiglie nobili, gli Orrù e i Diana.