Nelle ultime ore stanno facendo discutere i casi di violazione del silenzio elettorale, ossia l’interruzione della propaganda politica che la legge impone nel giorno del voto e in quello precedente.
La legge, che risale al 1956, prevede il divieto di qualsivoglia forma di propaganda (“comizi, le riunioni di propaganda elettorale diretta o indiretta, in luoghi pubblici o aperti al pubblico, la nuova affissione di stampati, giornali murali o altri e manifesti di propaganda”) per incoraggiare una riflessione serena degli elettori.
La violazione, in teoria, è punita con una multa da 103 a 1.032 euro e la reclusione fino ad un anno.
In teoria, perché nella pratica tale semplice norma non viene rispettata: nelle ultime ore, ci hanno segnalato tantissimi casi di violazione anche nel Medio Campidano, avvenuti sia in pubblica piazza, sia sui social.
Documentato anche l’utilizzo massivo di messaggi privati (spesso non graditi e non espressamente autorizzati, come richiede il Garante della Privacy) ricevuti via SMS o altri sistemi di messaggistica (tra WhatsApp, Telegram e Messenger non mancano le opzioni, per inviare santini o appelli al voto per il proprio partito).
Se è vero che la legge non cita espressamente i mezzi digitali (essendo una legge di diversi decenni fa) è vero che la Cassazione ha definito i social “luogo pubblico” e anche le linee guida dell’Agcom sono chiare: il silenzio elettorale va rispettato sempre e comunque. Come espresso da una nota del Ministero, il divieto di propaganda elettorale e l’obbligo del silenzio riguarda chiunque e tutte le forme di comunicazione.
Se i partiti e i candidati (o la loro claque) non sono capaci di rispettare una semplice legge per 48 ore, e cercano di aggirare le norme a loro uso e consumo con la furbizia, cosa saranno capaci di fare una volta eletti?