Le famiglie. L’assistenza alle persone con disabilità è affidata, per la maggior parte del tempo, ai familiari. La situazione si è aggravata notevolmente durante la fase di isolamento in cui sono venuti meno anche alcuni dei servizi fondamentali di assistenza e cura della persona, nonché la possibilità di frequentare luoghi di ricreazione e di socializzazione. Anche durante la cosiddetta fase “due” l’assistenza a queste categorie sembra essere ancora del tutto “a carico” dei familiari, spesso anziani. Come riporta infatti l’ordinanza comunale per la fase “due”, le visite per l’assistenza a domicilio devono essere ridotte il più possibile. Deve essere dunque il familiare a doversi occupare 24 su 24 della persona con disabilità e fronteggiare tutta una serie di difficoltà che questo compito – per il quale spesso il familiare non è adatto o non è preparato – comporta.
Legge 162/1998. Lo stesso vale per quello strumento utilissimo ed efficace esistente in Sardegna e regolato dalla Legge Regionale 162/1998 (“Fondo per la non autosufficienza. Piani personalizzati di sostegno in favore delle persone con grave disabilità”) che assicura, per alcune ore al giorno, la presenza di un educatore o accompagnatore al fianco di una persona con disabilità. Per questioni di sicurezza molte famiglie hanno scelto di sospendere temporaneamente questo servizio, di non usufruirne per non mettere a repentaglio la propria salute e quella dei propri cari. Ma per quanto tempo ha senso farlo? Non tutti però hanno accettato questa situazione: per certe famiglie rinunciare anche alla 162 è impossibile ed lo è tanto per i familiari, quanto per la persona con una disabilità. Quelle poche ore al giorno sembrano niente, ma sono fondamentali.
Le criticità, prima e durante. Occorre individuare alcune le soluzioni almeno per i casi di massima criticità. Critica è quella situazione in cui, nei casi di persone con disabilità (ma anche tossicodipendenti o malati psichiatrici), una prolungata mancanza o carenza di servizi assistenziali, attività sociali e di recupero comporta inevitabilmente il peggioramento delle condizioni di vita. Questo, in realtà, ci fa pensare a quanto questi servizi fossero necessari ben prima dell’epidemia e a quanto certe mancanze pregresse ora siano indubbiamente accentuate.
Le conseguenze. Uno degli effetti della quarantena e della ‘paura’ del contagio è anche l’inevitabile perdita di quelle sane abitudini che, magari, si era riusciti ad assumere nella fase precedente all’epidemia con tanta fatica, tanto impegno e l’aiuto degli operatori che sono vicini alle famiglie. In un attimo, ecco dissolversi del tutto o in buona parte quei risultati che erano stati raggiunti a fatica dai familiari grazie all’aiuto della comunità prima della fase di isolamento. Talvolta si è entrati o ri-entrati in circoli viziosi da cui si era cercato di uscire, con un significativo aggravamento di problemi già esistenti.
Altre vie. In questa fase due ci chiediamo quale sia la strada giusta per una “ri-socializzazione”- ma senza contatti. Il problema non è l’attività sociale, ludica o ricreativa in sé, ma il modo in cui viene portata avanti. Si sconsiglia e si evita l’attività in luoghi chiusi, si deve optare per quella all’aria aperta. Ma anche all’aperto, bisogna dosare e pianificare le proprie azioni, coordinarsi con gli altri, capire cosa è opportuno e cosa no, organizzarsi in piccoli gruppi o turni in modo da occupare gli spazi (all’aperto!) a ‘giusta’ distanza. Anche questo suona strano, troppo strano, eppure si cercano compromessi per non rinunciare del tutto. Non si può e non si deve fare come se l’epidemia non fosse ancora in atto. Ma non si può e non si deve rinunciare alla salute in generale, che non riguarda soltanto quella legata all’influenza da Covid-19, ma è ovviamente qualcosa di più.
Domande. Forse allora è il caso di pensare a qualcosa che sarebbe stato utile anche prima e che sarà efficace anche dopo l’emergenza. Ma che cosa? E chi deve occuparsene? Come fare se, non appena viene dato il “via libera”, ci si dimentica di nuovo e con facilità di essere comunque in una situazione incerta, non troppo diversa da quella che si aveva a febbraio a inizio epidemia? Non siamo di fronte a un mostro né in guerra contro un invisibile nemico, ma la comunità deve comunque fronteggiare un’incognita seria, una situazione nuova e davvero complessa. Deve trovare le risorse e gli strumenti per farlo e interrogarsi: riusciamo, nel contempo, a non diffondere il contagio, ma anche a non terrorizzarci, colpevolizzarci, controllarci a vicenda?
La.F.