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lunedì, 12 Agosto 2024

Selvicoltura naturalistica e prevenzione incendi: le storie dei boschi raccontate da Giorgio Vacchiano

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In quest’estate calda, non possiamo che guardare ai luoghi più “rifrescanti” che la natura ci offre: possiamo buttarci in mare, rifugiarci all’interno di una grotta… oppure cercare riparo in un bosco! E da lì, sotto l’ombra dei freschi alberi, riflettere sui molteplici vantaggi che, da sempre, boschi e foreste offrono alla specie umana, magari attraverso la lettura di un libro come quello di Giorgio Vacchiano, La Resilienza del bosco: Storie di foreste che cambiano il pianeta, uscito già per Mondadori nel 2019, ma riedito, con un’introduzione aggiornata, nel luglio del 2024. Vacchiano, ricercatore in Gestione e pianificazione forestale presso l’Università Statale di Milano, è stato nominato nel 2018 dalla rivista “Nature” tra gli 11 migliori scienziati emergenti al mondo e raccoglie, in questo volume, alcune delle sue esperienze di studio e di ricerca. Con un linguaggio semplice, ma non senza dovizia di particolari, Vacchiano racconta gli intrecci che legano la vita delle piante alla storia del pianeta e alla sopravvivenza della vita sulla terra. Attraverso i racconti delle proprie esperienze di osservazione e di viaggio, Vacchiano ci guida nel mondo della “selvicoltura naturalistica” e ci spiega quali “tecniche di gestione forestale volte” possono “assecondare il dinamismo naturale della vegetazione” e “proteggere al meglio la diversità” (p. 105). Non si tratta soltanto di conoscere il mondo delle foreste, ma di divulgare queste conoscenze per “gestire il bosco in modo intelligente” collaborando con la natura e “addirittura cercando di imitarla” (p. 108).

Ci sono particolari aree della terra, ad esempio andando verso latitudini artiche, tra la tundra e la taiga, oppure mentre si sale di altitudine, come nelle nostre Alpi, in cui troviamo zone di transizione tra aree boschive e aree in cui gli alberi non riescono più a proliferare e che prendono il nome di treeline (linea degli alberi). È in queste zone che per gli alberi diventa sempre più difficile sopravvivere, ma ecco che “più le condizioni ambientali sono proibitive e più gli individui tendono ad aiutarsi a vicenda, invece di competere tra loro” (p. 75). Per questo, nelle treeline di alta montagna, gli alberi tendono a crescere in gruppo per “proteggersi gli uni con gli altri dai venti freddi, dall’eccessiva copertura nevosa o dalla forte insolazione delle alte quote” (p. 74). Secondo Vacchiano, la “resilienza” che possiamo osservare nei boschi può “ispirarci fiducia nella capacità degli ecosistemi di adattarsi a condizioni difficili” (p. 6). Se osserviamo da vicino i “fili invisibili che ci collegano al pianeta e ai suoi abitanti, umani e non umani”, possiamo apprendere “un senso di comunità” che è fondamentale per la nostra stessa sopravvivenza (p. 7).

“L’umanità”, ci racconta Vacchiano, “deve compiere qualcosa che non è mai accaduto nel corso della storia: agire collettivamente come specie per fronteggiare un nemico che ha generato con le sue stesse mani e che minaccia il suo habitat, e di conseguenza la sua stessa sopravvivenza” (p. 5). Prendere l’esempio dagli alberi e dalle foreste significa, innanzitutto, sfatare alcuni miti, radicati da secoli e persino millenni nel nostro modo di vedere e comprendere le piante, che soprattutto di recente alcuni ricercatori, molti dei quali italiani, quali Stefano Mancuso e Giorgio Vacchiano, stanno cercando di sfatare attraverso un intenso lavoro di divulgazione, oltre che di ricerca. Uno di questi “miti” è la convinzione “che le foreste siano statiche, che stiano lì, immobili, da sempre” (p. 10). La pianta sarebbe immobile in quanto diversa dagli animali, ovvero priva di anima e quindi ferma, destinata a vivere un destino di mera passività. Le cose però stanno diversamente, visto che in realtà piante e foreste “vivono, e cambiano, a un ritmo più lento del nostro” (p. 10), anzi “migrano”, proprio come gli esseri umani, spostandosi attraverso la diffusione dei propri semi in zone propizie.

Il libro di Vacchiano però ci interessa anche per un altro motivo e cioè perché si sofferma molto su quelli che nel gergo tecnico dell’ecologia prende il nome di “disturbo”. I disturbi sono quelle trasformazioni drastiche o catastrofi ambientali quali incendi, alluvioni, eruzioni o altri fenomeni distruttivi in grado di sconvolgere gli ecosistemi. Ne abbiamo esperienza ormai anche nella nostra isola, dato che purtroppo il cambiamento climatico in atto ci sta abituando a questo tipo di fenomeni che prima erano considerati più “rari”. Vacchiano però spiega come proprio in seguito a questi “disturbi” possiamo osservare una risposta della natura che ci aiuta a comprendere meglio come funzionano le diverse specie animali e vegetali. Vacchiano osserva questi fenomeni dal punto di vista della rinascita e della rigenerazione che consegue alle catastrofi e va alla ricerca di ciò che potrebbe esserci utile per aiutarci ad affrontare meglio gli eventi devastanti che la “crisi climatica” potrebbe produrre, in futuro, con frequenza e intensità sempre maggiori.

“I cambiamento climatico”, racconta Vacchiano, “non ha precedenti nella storia dell’uomo. Variazioni casuali di temperatura intorno alla media si sono sempre verificate (con anni più caldi e anni più freddi), ma oggi la scienza ha dimostrato un cambiamento rapido e a senso unico a partire dalla seconda metà del secolo scorso” (p. 48). Ci si interroga oggi come è possibile fermare o rallentare questo processo e la prima risposta degli studiosi è quella, come sappiamo di “eliminare le emissioni di gas serra”, a livello sia individuale che globale. “Ridurre il consumo di carne e gli spostamenti in auto e in aereo” (p. 53), “sostituire i combustibili fossili con le energie rinnovabili, aumentare l’efficienza energetica degli edifici e passare a una mobilità sostenibile alimentata da energia elettrica pulita” (p. 54): sono tutti argomenti su cui i ricercatori impegnati nello studio del cambiamento climatico lavorano da decenni e che, ormai, sono diventati anche oggetto di discussione pubblica. Ma l’argomento su cui Vacchiano nel suo libro insiste riguarda più da vicino la comprensione del modo in cui le foreste si sono adattate nel corso di millenni a diverse pressioni ambientali anche estreme.

Ed è qui che forse, troviamo un argomento che, in questo periodo, ci tocca particolarmente da vicino: il problema degli incendi e non è un caso che, proprio Vacchiano, sia intervenuto in passato, a proposito del grave incendio che ha coinvolto la Sardegna nel 2021, nella zona del Montiferru. Uno dei fenomeni distruttivi a cui le foreste si sono adattate da millenni è infatti rappresentato dagli incendi. Alcune piante del Mediterraneo rispondono alla siccità e al fuoco con strategie che risultano da un lento processo di selezione naturale e adattamento, alcune, come il cisto, facendo “sprofondare i propri semi in una specie di letargo, da cui si risvegliano proprio grazie alle alte temperature”, quindi durante gli incendi, altre, come il pino di Aleppo, sigillando i semi “all’interno delle proprie pigne con una resina durissima che solo le fiamme possono sciogliere”. E ancora, la quercia da sughero ha sviluppato una corteccia che “serve proprio a proteggere la pianta dagli incendi”, mentre i corbezzoli o i castagni sono “capaci di rinascere dopo gli incendi emettendo nuovi fusti direttamente dal ceppo o dalle radici” (p. 116).

Particolarmente drammatici, tuttavia, sono gli incendi “fuori scala”, cioè di dimensioni particolarmente estese che si verificano in particolare nei periodi di maggiore siccità e a cui, purtroppo, abbiamo dovuto assistere negli anni recenti anche sulla nostra isola e che sfuggono, per la loro portata, a una pronta ed efficace risoluzione, ma comportano enormi perdite e altrettanto grande dispendio di risorse. Così, l’interrogativo sorge spontaneo: “come dovremmo combattere gli incendi se, sotto i colpi del riscaldamento globale, le temperature aumentano di anno in anno, e le piogge, ogni estate più scarse, incrementano lo stress idrico della vegetazione rendendola altamente infiammabile?” (p. 111). La risposta di Vacchiano, insieme a quella di altri ricercatori italiani impegnati in questo settore di studi, come Davide Ascoli, è inattesa, poiché vede proprio nell’applicazione del fuoco la soluzione ai grandi incendi. Nel libro viene descritta la cosiddetta tecnica del “prescribed burning” (fuoco prescritto) che è stata adottata da alcune regioni in Italia, Sardegna inclusa, per la prevenzione di incendi di vasta portata. Anche se non mancano voci contrastanti in merito, per il fatto che tale strategia metterebbe a repentaglio la vita anche di microorganismi ed insetti, si tratta di una pratica dalle origini molto antiche, ma che oggi si è sviluppata come una delle principali tecniche di “selvicoltura preventiva”, che “può essere applicata in modo estremamente puntuale”, assieme al  “taglio dei rami bassi o l’asportazione meccanica di una parte della vegetazione arbustiva” per interrompere i percorsi che il fuoco potrebbe seguire in caso di incendi improvvisi (p. 119). La tecnica del fuoco prescritto sarebbe inoltre in grado di “mitigare il cambiamento climatico” perché, pur producendo emissioni di CO2 anch’essa, previene quelle che deriverebbero dagli “incendi di chioma” nelle aree in cui non è stata fatta prevenzione e che sarebbero decisamente maggiori (p. 120). Certo è che tali procedure non possono essere improvvisate ma essere oggetto “di una pianificazione esperta e condivisa e di personale preparato” attraverso corsi ed esercitazioni mirate (p. 121).

 Che ci si avvalga o meno di tale tecnica, fondamentale è comunque la prevenzione attraverso la cura delle aree verdi, siano esse urbane, agricole o boschive. Non basta seminare e coltivare piante e alberi: occorre assicurarsi che, in caso di siccità, erbe alte e cespugli non siano cresciute in misura tale da favorire la propagazione incontrollata degli incendi. Questi eventi imprevedibili, spiega Vacchiano, accadono per lo più per cause legate all’attività umana anche se – occorre precisarlo – solo in minima parte per motivi criminali o dolosi, ma più per negligenza, abbandono, errori umani, distrazione. L’accento allora va sul senso di responsabilità degli esseri umani nei confronti dell’ambiente in cui si vive, che è sempre caratterizzato da un “delicato equilibrio” di cui dobbiamo diventare consapevoli (p. 154). In molti ecosistemi, “il passaggio dell’uomo ha segnato un punto di non ritorno, alterando paesaggi e specie con conseguenze di vasta portata” (pp. 157-158). Anche nel caso di quei paesaggi che a noi appaiono “naturali”, possiamo trovarci di fronte al risultato dell’azione umana. Tutto ciò significa che ogni nostra azione ha delle conseguenze e non possiamo ignorarlo, ma dobbiamo prenderne atto. Per questo l’invito è quello di “agire in modo collettivo, coordinato, quindi politico nel senso più nobile del termine” (p. 162) per evitare la scomparsa della biodiversità e salvaguardare non soltanto i boschi, ma con essi, noi stessi.

La.F.

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