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sabato, 21 Dicembre 2024

Gonnosfanadiga, 17 febbraio 1943: una ricorrenza tragica proposta dal Comune come vetrina per promuovere i prodotti locali

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Il 17 febbraio del 1943, il paese di Gonnosfanadiga fu bombardato dagli americani: morirono 118 persone, tra cui 27 bambini e altre 330 rimasero ferite. Una violenza inaudita rimasta senza una spiegazione, perché il comune non era un obiettivo militare sensibile. Ogni anno quelle vittime innocenti vengono ricordate dalla comunità con una cerimonia.

Quest’anno, però, una proposta dell’Amministrazione Comunale di Gonnosfanadiga sta suscitando numerose perplessità. Prima di approfondire e commentare la questione, vi proponiamo un’accorata lettera di una cittadina di Gonnos, che meglio di chiunque altro ha descritto lo sgomento e lo smarrimento davanti a certe “idee” commerciali abbinate alla commemorazione dei defunti.

Eccola, integralmente, di seguito.


Il 17 Febbraio 1943 nel mio paese cadde una pioggia di bombe.

Così, in semplicità.

Gonnosfanadiga non è mai stato un paese degno di nota dal punto di vista strategico. Pastori, commerciantə, bambini e bambine che andavano a scuola o lavoravano (sì, lavoravano e anche duramente), bei prati, ulivi, una via centrale che chiamiamo rettifilo; per realizzarla perfettamente dritta vennero espropriate case, e le venne dato il nome del sindaco che l’aveva ideata (siamo sempre stati molto modesti, in paese).

Eh insomma, era una bella giornata di Febbraio, come sanno essere le giornate sarde, campidanesi, in questo periodo. I mandorli in fiore, il sole che scaldava in un accenno di primavera ormai alle porte, cielo terso o con pochi bianchi batuffoli.

È pomeriggio. Molti uomini sono nelle due piazze, quella del municipio e quella che oggi porta il nome di quella tragica giornata, a godersi il sole e fare quattro chiacchiere. Alcune donne sono lungo il Rio Piras, a lavare i panni. I bambini giocano. Mia zia, che all’epoca aveva dodici anni, si apprestava a uscire di casa per comprare un pettine per mia nonna.

Una giornata se non perfetta, sicuramente placida. Certo la fame, certo la guerra – e il tributo di morti al fronte – certo la dittatura. Ma il sole è caldo, i bambini rallegrano con le loro risa. Il cielo è di un azzurro che fa pensare non possa essere reale, tanto riluce.

Nessun preavviso, nessun allarme. A che serve un allarme in un paese di cinquemila anime, dove persino da Cagliari mandano gli sfollati perché possano stare al sicuro? Semplicemente, come solo la guerra sa fare, alle risate si contrappose la morte, al sole il sangue.

Una formazione di aerei americana sganciò sul mio paese seicento spezzoni, che diedero la morte – non immediata, non per tutti – a più di cento persone e ne lasciarono ferite, menomate, più di trecento.

Io vorrei soffermarmi su questa scena. Lo so, lo so, in tv passano continuamente immagini di guerra. Ma ci fermiamo a riflettere? Sei lì, che ti godi il sole, che parli col tuo vicino di casa e improvvisamente ti parte una gamba, un braccio, perdi un occhio. Sei lì che lavi i panni e vieni colpita da qualcosa che non sai, caduta dal cielo con la velocità di un insulto e muori. Ma non come nei film, non sospirando e salutando i tuoi cari. Muori con il corpo dilaniato, con pezzi di te che saltano in aria. Muori lasciando figli, marito, amiche. Muori sporcando di sangue l’acqua su cui stavi lavando i panni.

Sei un bambino o una bambina, giochi con la ruota, giochi a biglie, e forse per la prima volta in vita tua vedi un aereo. Sei talmente rapitə da quella scena che non pensi nemmeno – come potresti, non hai esperienza di cosa sia la natura umana – non pensi, nemmeno per un attimo, che quelle macchine volanti ti stiano portando la morte. E resti a guardarli, saluti pure, e forse ti stupisci quando vedi che qualcosa cade dal cielo. Meraviglia!

Io non lo so se esita o meno una classifica delle armi più meschine. Forse è meglio che non ci sia. Ma sicuramente quella di far cadere spezzoni che una volta a terra esplodono all’altezza delle gambe delle persone, e quindi ad altezza bambinə, sia una delle cose più immorali che esistano.

In paese ci sono ancora – per chi non ha dato una mano di intonaco o ha cambiato cancello – i fori di quell’assalto. E dentro i fori schegge di metallo. E se i muri, se i cancelli hanno conficcati su di loro quelle schegge, se quei fori hanno scavato i muri e i cancelli, cosa hanno fatto ai corpi delle persone?

Chi è sopravvissuto racconta che il rettifilo – la gloria di un sindaco – aveva rivoli di sangue ai lati, la piazza era il banco di un macellaio. C’erano urla, lamenti, shock. Tutto il paese venne scosso da un evento inenarrabile. E fu davvero così perché ci volle del tempo per recuperare i racconti.

Morirono 118 persone. Di queste, ventisette erano bambinə. Morirono le donne al fiume, morirono giovani e anziani. Morire nel cortile di casa, morire in piazza mentre sbeffeggi un compare, morire con la carta delle caramelle in mano.

I soccorsi furono quelli che furono. 330 feriti. Come fare? Alcuni vennero portati all’ospedale di Cagliari, dove morirono o si salvarono. Cagliari, martoriata dagli stessi bombardamenti. Cagliari, che aveva mandato alcunə suoə cittadinə proprio da noi, per salvarsi.

Qualcunə racconta che una madre vagasse per la strada, con un cesto, alla ricerca dei pezzi del corpo di suo figlio. Con quale disposizione d’animo, posso solo immaginare. Questo fu, e fu molto altro, perché dopo aver lavato il sangue secco dalla strada, dopo aver chiesto prestiti per poter pagare le bare, dopo aver tolto le schegge dai portoni di casa, dopo aver pianto e urlato e ringraziato un Dio che evidentemente sceglie chi salvare e chi condannare, per aver graziato ə bambinə dell’asilo che solo fino a pochi minuti prima erano in cortile a giocare, o mia zia, richiamata in tempo da mia nonna, perché non andasse più a comprare quel pettine, ma restasse in casa a badare a sua sorellina, mia madre.

Dopo tutto questo, rimasero orfani, vedovə, gambe e braccia mancanti in vite già misere, occhi diventati ciechi o mai ritrovati, dita perse, vite spezzate nel profondo di un’ingiustizia che non ha mai avuto senso né risposte, se non che la guerra, che le guerre, sono questo, l’insensatezza, il male all’ennesima potenza, il dolore sporco, pestifero, impossibile da sanare. Le guerre sono la sospensione del diritto alla gioia, sono la forza contro la delicatezza, il potere che genera mostri.

Sono passati ottant’anni. Venerdì, come ogni anno, si ricorderanno i morti e la tragedia.

Ma quest’anno, per variare, l’amministrazione comunale del mio paese, ha pensato bene di unire l’utile al dilettevole, ha pensato che questa tragedia immane che ha colpito praticamente ogni famiglia di questo povero paese, fosse carino ricordarla facendo due cose.

La prima: commemorare un uomo che morì con una bomba in mano, un soldato dell’Asse che “con preciso lancio di bombe a mano […] Visto cadere un compagno portatubi, s’impadroniva del suo ordigno e lo faceva brillare, col proprio, sotto il reticolato, creando una prima breccia.”* sul fronte di Tobruk nel Giugno dello stesso anno.

Massimo rispetto per l’uomo, convinto sostenitore di una guerra che forse sentiva sua, tanto da immolarsi pur di combattere dalla parte sbagliata della Storia. Nessun commento, medaglia d’Oro al valore militare, mi pare ci stia tutto. Commemorarlo nella data in cui dei civili che forse forse non volevano immolarsi per LVI e le sue manie di colonialismo, magari mi sembra poco opportuno.

Da anni c’è una sorta di “controbilanciamento” (a volte mi fa pensare al “e allora le Foibe” in salsa paesana), dove ad ogni 17 Febbraio si lucida o rinnova la targa di quest’uomo. Ripeto, con il massimo rispetto, mi pare una questione di opportunità. È opportuno glorificare un militare che combatteva contro chi ci ha liberato dal nazi fascismo, e che combatteva una guerra di conquista, nel giorno in cui morirono persone innocenti e al di fuori delle logiche belliche? Che di fatto erano solo vittime? Non si può fare in un’altra data?

La seconda: qui arriva il bello. Qui arriva ciò che mi ha colpito più che se la mia pelle fosse stata tagliata da una lama affilata. L’amministrazione comunale ha pensato, come ogni anno, di invitare delle rappresentanze militari, compresa la Banda della Brigata Sassari.

Gonnosfanadiga vanta una banda che ha più di cento anni, ma meglio chiamare altre persone. Va bene, nessun problema. Arriviamo al punto. Ritengono sia “doveroso, quale segno di accoglienza e ospitalità, un convivio di saluto alla Banda della “Sassari”, e tutto il resto. Ma come? In che modo?

“Il nostro paese è notoriamente conosciuto per la bontà della sua enogastronomia” che fai, non li metti un po’ di stand (anzi, nel comunicato sgrammaticato sono STEND), perché “Una presenza massiccia di persone, soprattutto non Gonnesi” (di fatto si sa che le commemorazioni dei morti muovono centinaia di persone, vedi Predappio), “è senz’altro una vetrina espositiva di sapori, di presentazione e di conoscenza dei produttori e un SICURO RITORNO IN TERMINI DI PUBBLICITÀ E VISIBILITÀ” Quindi si chiede alla popolazione di collaborare, allestendo i famosi “mini stend” per far conoscere i prodotti locali perché nel periodo del bombardamento “tante persone, magari, si occupavano di produzione e vendita di prodotti locali, già allora conosciute e apprezzate”. Quindi, visto che nel 1943 le persone si arrabattavano come potevano, possiamo usarle come giustificazione per fare commercio nel momento della loro commemorazione. (Io sono atea, ma ho avuto la fugace immagine di Gesù contro i mercanti del tempio).

Non so come l’amministrazione del Comune di Gonnosfanadiga abbia potuto avere un’idea che tiene così poco in considerazione la vita e la sofferenza delle persone che quel giorno morirono, o restarono fortemente menomate, non solo nel fisico. Non so come si possa avvicinare il ritorno pubblicitario a una tragedia. L’11 Settembre, a NY, fanno la sagra dell’hot dog? A Sant’Anna di Stazzema cercano il ritorno di immagine?

Un minuto di silenzio.

La ferma presa di posizione contro tutte le guerre.

Il ricordo dei morti, leggendo magari i loro nomi.

Ribadire di essere contro ogni dittatura, contro il fascismo, contro il nazismo.

Bastava questo, senza frizzi e lazzi. Poi tuttə a casa. E lì ve li potete pure mangiare i prodotti locali, nessunə vi giudica, per carità.

Nessunə.

Gabriella D.

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