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martedì, 16 Luglio 2024

Gogne mediatiche e processi sommari: è ora di smetterla con la pena di morte sul web

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Nelle ultime settimane nel nostro territorio, a un passo da noi, sono accaduti dei fatti che solitamente percepiamo come lontani, notizie che si spera non ci sfiorino mai. Le comunità possono reagire in modi diametralmente opposti a queste notizie: stringendosi gli uni con gli altri e proteggendo i più deboli, oppure lasciandosi andare al giustizialismo da salotto, dando il peggio di sé.

Quest’ultima opzione è quella scelta da gran parte delle persone per i due gravi fatti di cronaca apparsi su alcuni giornali (ma non sul nostro, e più avanti vi sarà più chiaro il perché). Qualche settimana fa la notizia di un insegnante accusato di molestie, con tanto di nome e cognome in prima pagina. Ieri, invece, tam tam sul “maniaco di Guspini” con foto dell’automobile del presunto colpevole diffusa sui social (riconoscibilissima per modello e colore da chi abita in un paese così piccolo).

In entrambi i casi – ancor prima che venissero accertati i fatti o emesse sentenze nelle sedi opportune – è scattata la “caccia al mostro”, lo sdegno social, la gogna mediatica, il linciaggio digitale: chiamatelo come volete, il risultato è il medesimo. Se dell’insegnante non abbiamo avuto più notizie, dell’uomo accusato di molestie apprendiamo oggi che l’uomo si è tolto la vita, dopo aver visto e letto tutti i commenti sui social.

Decine, centinaia, migliaia di persone si sono erte a giudice, giuria e boia. Avevano già deciso la sentenza: la morte.

E attenzione, non voglio dire che queste persone siano innocenti o colpevoli. Non è compito mio, che scrivo, né di chi legge. Il compito spetta ai tribunali e agli inquirenti spettano le indagini. Sostituirsi alle Forze dell’Ordine con foto segnaletiche pubblicate sui social è pericoloso. Oggi è capitato ad altri, domani potrebbe capitare a chiunque di noi: colpevoli o innocenti, alla folla inferocita non interessa. “Morte al mostro!” grideranno tutti, senza aspettare la sentenza di un tribunale.

E quello che mi fa più rabbia non è la ferocia con cui ci si scaglia contro quello che potrebbe essere un “pedofilo”. Mi rivolgo a voi che, con la vostra sete di sangue, calpestate chiunque pur di avere facile vendetta (e non giustizia) o – ancora peggio – qualche euro ottenuto dai click sui vostri siti.

Davvero nessuno arriva a pensare che diffondere il nome di un insegnante che ha (o avrebbe) molestato una bambina, renda facile identificare il paese, la scuola, la classe e la vittima stessa, “marchiandola” e rendendola ancora più vulnerabile ed esposta? Oppure forse qualcuno lo pensa, ma non si fa scrupoli a calpestare la privacy di una bambina qualsiasi?

Davvero nessuno è sfiorato dal dubbio che potrebbe esserci uno scambio di persona? Persone somiglianti o stesso modello e colore di automobile? Oppure un’immagine di una telecamera pescata nel posto sbagliato o nel momento sbagliato? Nessuno pensa che una volta fatta partire la caccia al mostro è impossibile fermarla? Nessuno vuole essere sicuro di quello che sta scrivendo, condividendo e comunicando? Qualcuno tra le centinaia di condivisioni ha verificato di persona o si è fidata di un post letto a caso sui social?

E se questo comportamento è orribile se perpetrato da singole persone, diventa ancora più meschino se portato avanti da chi dovrebbe garantire una corretta informazione. Ma si sa, sbattere il mostro in prima pagina porta tanti click, e quindi qualche spicciolo da mettere in tasca. Contate quelle monete e scoprirete quanto vale, per certa gente, la vita di una bambina.

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