Continuiamo con le nostre “interviste in quarantena”, per aprire nuove vie di riflessione, per farci ispirare da nuovi modi e stili di vita, per far conoscere nuove realtà, non solo a San Gavino ma anche nel mondo. Dopo aver fantasticato insieme a “Gianrico” i nostri prossimi giri in bicicletta, viaggiamo dal Campidano verso il Messico, dove è approdato, qualche anno fa, il sangavinese Roberto Spano. A Città del Messico Roberto ha dato vita a un nuovo progetto, il Centro Multidisciplinare Acahual, sulla guida di un importante concetto e applicabile in molti ambiti, quello di “rigenerazione”.
Ciao Roberto. Cos’è Acahual, come nasce e con quali intenti?
Gli acahuales in Messico sono i terreni incolti che si stanno rigenerando ad opera di alcune piante accumulatrici di nutrienti come il girasole selvatico o “Acahual”. In nahuatl Acahual è il mese che segue le inondazioni della stagione delle piogge e segna la rinascita della natura dopo una catastrofe. Potrei continuare, il nome è denso di significati, troppo profondo per lasciarselo sfuggire, perciò abbiamo deciso di battezzare così il nostro centro multidisciplinare qui in Messico. L’idea di creare un centro che si occupasse di rigenerazione in vari ambiti, dal sociale all’urbano, dal rurale all’ambientale, mi frullava in testa da diversi anni, anni nei quali mi rendevo conto sempre più che un’avvicinamento monodimensionale a problemi sistemici non solo era inefficace, ma si rivelava spesso dannoso nelle conseguenze. L’incontro con il Messico e Città del Messico furono fondamentali per capire che quello probabilmente era il luogo ottimale per un progetto pilota di rigenerazione sistemica a partire dal margine della conurbazione urbana. Più del 50% della popolazione mondiale vive in conurbazioni come questa: se non si vince la battaglia contro di noi stessi qui in questa trincea creata dagli esseri umani non si vincerà da nessuna parte proprio perchè la maggioranza dei problemi vengono proprio da qui.
Sembra essere questa la domanda che viene a tutti spontanea, nel vederti impegnato in Messico e non in Sardegna, nel Mediterraneo. Perché non qui?
Per alcuni anni ho supportato percorsi alternativi di “rigenerazione”, portati avanti da varie associazioni sarde come Qedora, SarPa e Terre Colte, anteriormente ho collaborato con l’Università degli Studi di Cagliari nella redazione dei Manuali di Recupero dei Centri Storici della Regione Sardegna e per due anni lavorai alla redazione del Piano Particolareggiato del Centro Storico di San Gavino.
San Gavino e la Sardegna non li ho affatto dimenticati, lo sanno molti amici con cui continuo a collaborare a distanza. La Sardegna entra prepotentemente in questo discorso di rigenerazione e mi permette da un punto di vista privilegiato d’interpretare la vita di un altro luogo con gli occhi impregnati di diversi paesaggi umani e ambientali. Per me è stato fondamentale aver vissuto altrove, anche se per brevi periodi, penso a Barcellona e Firenze e ai miei ripetuti contatti con la Germania e in misura minore con la Francia, il Portogallo e il Marocco. Di fatto l’idea di Acahual è quella di creare un ponte di reciproca comprensione tra il Latinoamerica e il Mediterrano
, due immense eredità storico-culturali che nel loro primo incontro, cinque secoli fa, sono entrate in un conflitto che ha minato il perpetrarsi dell’esistenza della cultura ancestrale andina e mesoamericana. Due culture millenarie, immense, che ultimamente stanno riemergendo dalle ceneri con il loro discorso di equilibrio con l’ecosistema, importantissimo per il mondo intero.Cos’è la perma-coltura? Che differenza c’è rispetto alla comune agri-coltura?
La perma-coltura nasce negli anni ’70 in Australia dall’incontro di due persone Bill Mollison e David Holmgren che concepirono una policoltura permanente che permettesse di coltivare sullo stesso appezzamento di terreno diverse piante produttive con la compresenza di animali. Da questo primo approccio dove la perma-coltura è evidentemente una forma di agri-coltura si sono sviluppate varie correnti di pensiero e d’azione in diversi ambiti della scienza e dell’intendimento umano collegati a questo sistema di disegno sistemico. Questa grande esperienza ha portato la perma-coltura a trasformarsi in perma-cultura ossia in cultura permanente. In questo senso la permacultura diviene un sistema di disegno che cerca di progettare la complessità attraverso l’imitazione dei patterns o modelli presenti in natura, così come si può progettare un orto o una policoltura, si può anche progettare una comunità o un sistema economico alternativo. Alla base di tutto ciò vi stanno tre principi etici che sono: la cura della terra, la cura delle persone e il condividere in maniera equa il surplus produttivo. Questi principi fanno della permacultura un sistema umano etico.
Affascinante, ma ci sentiamo purtroppo ancora molto lontani da tutto questo. Ti chiedo ancora una piccola definizione, che riguarda la food-forest, o “bosco commestibile”: cosa significa? E perché ci si sta orientando verso questa pratica?
La food forest o come piace chiamarla a me, bosco commestibile, è una delle tante tecniche rigenerative che si utilizzano in permacultura. Nello specifico questa tecnica si occupa di creare boschi produttivi composti da diversi strati di piante con differenti portamenti, piante erbacee, rampicanti, arbustive e arboree, tutte aventi differenti e multiple fuzioni nell’ecosistema generale, piante accumulatrici di nutrienti, azotofissatrici, generatrici di biomassa etc. Il principio è quello d’imitare la struttura e le molteplici inteconnessioni presenti in un bosco naturale per creare un bosco giovane di piante produttive che danno un’alternativa all’alimentazione umana, che producono, frutta, insalata, tuberi, noci etc. Chiaramente ogni bosco commestibile ben progettato dev’essere pienamente studiato e pianificato attraverso dell’osservazione, per il clima e l’ecosistema in cui s’inserisce e le necessità di chi lo realizza, con le piante adeguate e con un previo processo di rigenerazione del suolo. La cultura mediterranea è un poco aliena a questo metodo di coltivazione che radica nelle culture agricole di diverse aree del pianeta, specie in zone tropicali. In Mesoamerica per esempio gli orti sono sempre stati policolture di piante annuali e perenni con la presenza di alberi di diverso fusto. Il famoso Solar Maya, l’orto tradizionale di cultura Maya della penisola del Yucatàn, non è altro che un bosco commestibile. L’importanza del bosco commestibile per il futuro, una rilevanza che condivide con gli altri numerosissimi sistemi rigenerativi della permacultura e dell’agricoltura e urbanistica rigenerativi, è quello di creare ecosistemi artificiali sul modello di quelli naturali e in equilibrio con quest’ultimi, sono sistemi che non si limitano alla “sostenibilità” ma che vanno oltre e mirano alla rigenerazione dell’equilibrio tra l’essere umano e la nostra madre terra.
Su questi temi e sul tuo progetto, rimandiamo al tuo bellissimo articolo pubblicato qualche tempo fa. Ma ora parliamo un po’ di te. Una laurea in ingegneria edile, due Master uno in Recupero e Riqualificazione del Patrimonio Storico-Rurale della Sardegna e uno in ABITA (Architettura Bioecologica e Innovazione Tecnologica per l’Ambiente), la passione per lo studio e, a un passo dall’inizio di un dottorato, hai scelto di “cambiare strada”. Permacultura, agricoltura rigenerativa, food forest, partenza in Messico. È stato un vero e proprio cambio di rotta o il risultato di un processo graduale? Con o senza rimpianti?
Apparentemente può sembrare che il mio sia stato un cambio di rotta repentino e con poco senso, quasi una locura (pazzia) direbbero qui, ma chi mi conosce bene sa che fin da quando esercitavo il mestiere dell’ingegnere-architetto, e anche anteriormente, nel mio percorso formativo, avevo sviluppato una grande sensibilità verso temi urbani, sociali e ambientali. Questa sensibilità è culminata nel prendere le distanze dalla “gabbia” di una professione spesso deprofessionalizzante per cercare di creare la mia storia e la mia professione di facilitatore del cambiamento. Non ho assolutamente nessun rimpianto, anzi guardando indietro mi rendo conto che ho esplorato un’infinità di percorsi umani e professionali, che se mi fossi limitato a fare l’ingegnere non avrei mai avuto il tempo nemmeno di conoscere la permacultura, l’agricoltura organica e rigenerativa, la facilitazione e la transizione. Inoltre, la mia formazione continua: recentemente mi sono affacciato con grande interesse al mondo della della governace dinamica e della bio-economia sviluppando progetti alternativi qui in Messico.
Una consapevole scelta di vita, un cambiamento radicale ma profondamente sentito. Parli di continua formazione e tuttora, tu stesso tieni dei corsi anche in Sardegna. Quali sono i propositi?
Il proposito di questa continua formazione è acquisire strumenti di analisi ma soprattutto metodi d’azione multidisciplinari per affrontare problemi complessi. Tempo fa lessi un libro di Ivan Illich dall’illuminante titolo: Esperti di troppo. La prassi nel mondo contemporaneo è rivolgersi a esperti per risolvere problemi, problemi che però spesso sono sistemici e hanno radici in vari campi. Un problema specifico che apparentemente sembrerebbe potersi affrontare con l’approccio dell’esperto spesso genera una trappola che crea effetti collaterali a loro volta generano nuovi problemi spesso più gravi di quello iniziale. Dobbiamo uscire da questa gabbia e capire che siamo esseri multidimensionali e con varie e differenti qualità, dobbiamo abituarci a ragionare al di fuori del comodo approccio dei sistemi lineari che nella realtà non esistono
. Ho scoperto negli ultimi anni una passione per l’insegnamento di questi nuovi orizzonti disciplinari, nei corsi che pianifico e imparto cerco sempre di incrociare diversi punti di vista per un approccio multidisciplinare alla risoluzione dei problemi.Si dice ci sia un legame molto stretto tra l’aggressione agli ecosistemi da parte dell’uomo (disboscamenti, riduzione della biodiversità, cattura e commercializzazione di specie animali selvatiche, e così via) e lo sviluppo di nuove malattie, tra cui il Covid-2019. In questo contesto, come si colloca Acahual?
I problemi che ci troviamo di fronte sono sistemici, tutti gli ecosistemi terrestri e umani sono al collasso. Non basta più parlare di sostenibilità, è un ossimoro, in un pianeta limitato non ci possono essere consumi di risorse o debiti illimitati, bisogna creare un mondo di equilibri dinamici. Però il degrado è talmente diffuso che prima di arrivare a questo fatidico equilibrio dinamico, se ci salveremo dai vari collassi che s’intravvedono all’orizzonte, passeranno decenni se non secoli dove la nostra funzione più importante sarà quella di rigenerare gli ecosistemi umani e naturali. Dobbiamo riprogettare il nostro esserCi, qui, ora, sensa ipocrisie e senza soffermaci troppo nell’insostenibile frivolezza della nostra cultura contemporanea che è diventata il peggior nemico di noi stessi. Dico questo perchè la natura ce la rimanda indietro come retroalimentazione negativa sottoforma di inondazioni, pandemie, disastri “naturali” di tutti i tipi. Tutte le porcherie che come genere umano generiamo nel pianeta terre ritornano come boomerang a noi stessi, è ora di smettarla, di prendere seri provvedimenti e cambiare radicalmente rotta. Quanti alberi abbattuti, quanti ecosistemi spazzati via, quante specie estinte quanti popoli e culture distrutti ancora dobbiamo aspettare per ammettere che il nostro sistema e la nostra società sono fallite miseramente perchè stupidamente fondate sulla convinzione egocentrica che l’uomo possa dominare la natura, su sistemi immaginari che l’uomo sapiens ha deciso seguire come se fossere gli unici?
Acahual si occupa proprio di creare progetti di rigenerazione che affrontino i problemi da un punto di vista sistemico, proprio per questo lavoriamo in rete con realtà nazionali e internazionali creando ponti di comprensione o se vogliamo reti connettive e nuovi ecosistemi umani.
Secondo te, possiamo fare qualcosa, nel nostro paese, per migliorare la situazione? Cosa si può fare – come singoli cittadini, come associazioni o addirittura come Comune – già durante questa quarantena (che ci costringe a stare in casa, annoiatissimi e forse inoperosi) e soprattutto all’indomani dell’emergenza, qualcosa, cioè, che vada nella direzione di un nuovo rapporto tra noi e l’ambiente in cui viviamo?
Assolutamente sì, San Gavino ha un patrimonio storico-culturale e ambientale sottovalutato in tutti i suoi aspetti: pensiamo ai vari sistemi agricoli e ambientali di eredità storica, pensiamo al suo patrimonio di case in terra cruda, alla sua struttura urbana quasi bioclimatica, al suo patrimonio di artigiani, musicisti, artisti e professionisti in tantissimi campi, pensiamo alle sue numerosissime associazioni così attive in diversi fronti. Cosa non funziona e dovrebbe migliorare è facile a dirsi; ancora non ho ancora intravisto sistemi transizione ecologica e di governance locale adeguati, ognuno va per la sua strada in una maniera spesso egocentrica senza umiltà, difficilmente si creano reti per affrontare i problemi sistemici che si trova davanti il paese e difficilmente si affrontano con i giusti strumenti, è come voler battere un chiodo con una spugna. Per curare l’apatia e l’individualismo esiste la partecipazione, la cittadinanza attiva, esistono tanti sistemi di governance che stanno venendo alla ribalta negli ultimi decenni, penso alla Sociocrazia e all’Holocrazia e tanti altri. Alcuni anni fa con Qedora avviammo il progetto di “S’Ortu de Tziviriu” il primo bosco commestibile in area pubblica di tutta la Sardegna, il progetto continua da vari anni con un programma formativo parallelo alla realizzazione del bosco, interessantissimo dal punto di vista della cultura rigenerativa. Pochi concittadini però hanno saputo giovarsi della presenza di una realtà simile di cambiamento locale. Dobbiamo riscoprire la cittadinanza attiva e la fiducia fra di noi per disegnare insieme e in maniera sociocratica la San Gavino degli anni venti di questo nuovo millennio, senza rimpianti in cose che ormai sono ancorate a un passato; rimanere aggrappati a quella storia che è solo una delle mille storie del passato sangavinese significa ristagnare in un passato di piombo e inquinamento e malattie che credo nessuno di noi vuole continuare a vivere.
Nel frattempo, magari in giardino, seduti sotto l’ombra di un albero, tra il cinguettio degli uccelli e il ronzio delle api, incuranti del coronavirus, vogliamo immergerci nella lettura. Che libro ci puoi suggerire?
Mi piace la poesia, specie quella evocativa colma di significato come la poesia di Franco Arminio il noto “paesologo” del Sud Italia. Consiglio di leggere la sua raccolta che si chiama Cedi la strada agli alberi. Tra i tanti bei componimenti troverete questa poesia:
“Abbiamo bisogno di contadini,
di poeti, gente che sa fare il pane,
che ama gli alberi e riconosce il vento.
Più che l’anno della crescita,
ci vorrebbe l’anno dell’attenzione.
Attenzione a chi cade, al sole che nasce
e che muore, ai ragazzi che crescono,
attenzione anche a un semplice lampione, a un muro scrostato.
Oggi essere rivoluzionari significa togliere
più che aggiungere, rallentare più che accelerare,
significa dare valore al silenzio, alla luce, alla fragilità, alla dolcezza.“
Franco Arminio,Cedi la strada agli alberi.
Penso sia la poesia perfetta per il momento che stiamo vivendo: è arrivato l’anno dell’attenzione e del silenzio, della luce, della fragilità e della dolcezza.
La.F.