La pandemia da coronavirus sta cambiando il nostro mondo, le nostre abitudini e il timore (fondato) è che possa essere qualcosa con cui dovremo convivere ancora a lungo.
Quando si analizzano i dati, si deve confrontarli in maniera coerente con i numeri presi precedentemente, per confrontare andamenti tra giorni successivi (ad esempio il bollettino giornaliero regionale o comunale) oppure per confrontare i dati attuali con quelli dell’anno precedente.
Come ad esempio lo studio di Matteo Villa, ricercatore per l’Istituto per gli Studi di Politica Internazionale (ecco il suo profilo sul sito dell’ISPI), che ha evidenziato un forte aumento della mortalità in 11 regioni italiane (compresa la Sardegna) nel periodo che va dal 1° al 21 marzo, confrontando di dati del 2019 e quelli del 2020.
L’aumento della mortalità in Sardegna, rispetto allo stesso periodo dell’anno scorso, segna un incremento del +64%. Non ci sono tutte le regioni perché l’autore ha incluso solo quelle per cui l’ISTAT riporta un numero di comuni sufficienti a raggiungere la soglia dei 100 decessi (altrimenti, l’errore rischierebbe di essere eccessivo). Ovviamente, per le regioni con un numero ridotto di morti il margine di errore rende a salire, mentre per le regioni più colpite, la differenza è evidente e difficilmente attribuibile “al caso”.
Alla luce della lettura di questi semplici numeri, qualcuno si ostinerà ancora a definire “allarmisti” gli studi che analizzano il fenomeno coronavirus in Italia e le persone che ne parlano?