Vi parliamo di Spillover. L’evoluzione delle epidemie (Adelphi, 2014), una raccolta di saggi narrativo-divulgativi su temi “epidemiologici”, dell’americano David Quammen.
Pubblicato con il titolo, ben più eloquente e accattivante nell’originale in inglese, di Spillover: Animal Infections and the Next Human Pandemic, il libro negli ultimi mesi è, giustamente, citato e riletto da moltissimi, che lo considerano ormai “profetico”. Quammen passa in rassegna, nei suoi 9 capitoli, una serie di malattie “zoonotiche”, trasmesse all’uomo da animali attraverso un fenomeno noto appunto con il nome di “spillover”: il salto del patogeno (soprattutto virus, ma non necessariamente) da una specie all’altra.
L’intento è quello di ricostruire la storia epidemiologica di alcune malattie più o meno note, e più o meno “nuove”, come Hendra, Ebola, Malaria, SARS, febbre Q, psittacosi, malattia di Lyme, HerpesB, AIDS, aviaria (e diverse altre!), mostrando come esse si siano sviluppate passando, in maniera più o meno diretta, da altre specie animali (scimpanzé o gorilla,capre o maiali, cervi, cavalli o cammelli, civette, polli e altri volatili, zecche, zanzare o bruchi, roditori ma soprattutto pipistrelli) all’uomo.
Il libro ci capita tra le mani in questi giorni, in cui appare vivacissimo il dibattito tra scienziati e divulgatori, politici e giornalisti, ma “soprattutto” tra gli ormai troppo diffusi “tastieristi” e “tuttologi” del web: tutti si affaticano – ciascuno con le proprie, più o meno valide, risorse e più o meno, affidabili, metodi e ragionamenti – per rispondere alla domanda “il nuovo coronavirus che ha scatenato la pandemia ha origine naturale o è stato prodotto in laboratorio?”. La domanda non è in questione nel libro, ma fa da sottofondo e ci aiuta ad affrontare la questione da una prospettiva ben più ampia: Quammen percorre, per ciascuna malattia, le strade diverse che possono portare una malattia, presente in altre specie, a fare il “salto” alla specie umana. Non ci dice niente sulle tesi complottiste delle ultime settimane, che accusano “gli scienziati cinesi” (o anche americani, o perfino tedeschi!) di aver costruito il virus a tavolino. Ci dice però tanto sui rischi che corre la vita sul nostro pianeta a causa del comportamento scellerato dell’uomo, del sovrappopolamento, del consumo sfrenato delle risorse a ritmi che ne impediscono la rigenerazione, di un sistema economico-politico che non sembra essere in grado di fornire “nuove vie” da percorrere, dell’aggressione e demolizione degli ecosistemi che, secondo Quammen, sarebbe il motivo principale per cui stiamo offrendo a sempre nuovi virus l’occasione di passare da altre popolazioni animali – dove trovano una limitata diffusione – alla popolazione umana, una popolazione di più di 7 miliardi di abitanti che si spostano, continuamente, da una parte all’altra del globo.
Il capitolo 4 (”A Dinner at the Rat Farm”, cioè “Una cena alla fattoria dei ratti”, pp. 175- dell’ed. it.) è quello che maggiormente attira la nostra attenzione, perché tratta della SARS da coronavirus, la non-troppo-lontana parente dell’attuale SARS-Covid-2, che fece preoccupare il mondo quasi vent’anni fa. Siamo infatti nel 2002/2003, in tempi, come si dice, “non sospetti” relativamente alla questione dell’origine o meno in laboratorio, argomento che, lo ripetiamo, non è trattato specificatamente nel libro. Preferiamo concentrarci su alcuni passaggi che ci sembrano particolarmente interessanti relativi alla malattia da coronavirus, anche se il libro andrebbe letto tutto perché il rischio che si scatenino delle pandemie non è legato a un solo tipo di virus o alla situazione attuale, ma è ben più ampio. La lettura del capitolo dedicato alla SARS ci cattura sin da subito: è come se, nel 2012, fosse stato già scritto tutto – o quasi tutto – quello che stiamo vivendo noi oggi, noi che né sei, né quindici anni fa non eravamo, probabilmente, interessati più di tanto a questioni di questo genere. Tra le tendenze “generali” della SARS, scrive Quammen, vi erano un “alto tasso di infezione e letalità tra medici e infermieri esposti a questa nuova malattia, che sembrava prosperare negli ospedali e nei cieli” (p. 176). Gli elementi significativi sono dunque l’altissima diffusione del contagio nei reparti ospedalieri – che è ciò che stiamo sperimentando a nostre spese in Italia, dalla seconda metà di febbraio ad oggi, fine marzo! – e il fatto che il virus si propaghi soprattutto grazie alle connessioni aeree, attraverso i suoi veicoli prediletti: i viaggiatori. Leggiamo così: “Il volo 112 quel giorno portava centoventi passeggeri, uno dei quali era un uomo febbricitante con una tosse che peggiorava di ora in ora. Nelle tre ore prima dell’atterraggio fece in tempo a spargere dosi di patogeno sufficienti a contagiare ventidue passeggeri e due membri dell’equipaggio” (p. 176). Sembrava, scrive ironicamente Quammen, “che il patogeno avesse la sinistra abilità di farsi dare passaggi in aereo” (p. 177). Quammen ci ricorda anche quale fu l’unica misura efficace nel contrastare la diffusione dei contagi, ovvero la “quarantena dei pazienti infetti” e “la protezione del personale sanitario”, in un’epoca in cui ancora – data l’assoluta novità del patogeno – non si aveva a disposizione nessuno strumento per identificare i pazienti infettivi (non c’era nessuna possibilità di effettuare tamponi e nessuna idea di cosa si dovesse andare a cercare attraverso l’analisi in laboratiorio dei tamponi, per intenderci!). La sola cosa che si osservava nel 2003 era l’alta contagiosità, l’esistenza di “super-untori”, cioè persone in grado di infettare fino a 20-30 persone alla volta, specie nei casi di sintomi più gravi (vi risparmio, su questo punto, le terribili dettagliate descrizioni alle pp. 181-182 che un po’ ci fanno tornare in mente i divieti, imposti al personale ospedaliero, di raccontare “quanto accade in reparto”).
Diversamente da altre malattie virali come l’Ebola, la SARS non venne subito individuata per la sua origine patogena, ma per i suoi sintomi. Il nome SARS non rimanda al virus, ma alla sindrome (Severe acute respiratory syndrome/Sindrome respiratoria acuta grave), che appare, come un “mostro invisibile”, “solo attraverso i suoi effetti” (p. 190). La ricerca del patogeno fu particolarmente impegnativa, dal momento che non si aveva a disposizione alcuna “impronta molecolare” del microbo: “Dunque i ricercatori devono ricorrere a un metodo più antico e meno automatico: far crescere il patogeno in coltura e osservarlo al microscopio” (p. 192). Un procedimento lungo per trovare la “misteriosa creatura” nel tentativo di ricreare, per prima cosa, l’ambiente adatto a farla moltiplicare e crescere, e renderla in tal modo visibile e analizzabile (p. 193). Fu allora che il virus apparve agli occhi dei ricercatori, mostrandosi per la prima volta nella forma che noi conosciamo, una struttura tondeggiante la cui superficie esterna appare come una corona punteggiata di spilloni: il coronavirus appunto. Era dunque un nuovo rappresentante della famiglia dei coronavirus a causare per la prima volta una malattia così pericolosa per l’uomo (p. 194). Scoprire la sua origine era diventato dunque il problema principale. Ma le ricerche non furono semplici, nemmeno in questo caso.
Al centro dell’indagine, afferma Quammen, è “l’interesse culinario per specie esotiche” strane che, spiega chiaramente l’autore, in Cina “non ha tanto a che fare con la scarsità di risorse, la fame o qualche antica tradizione, quanto con la recente ricchezza della zona e la nascita di mode e ostentazioni relativamente moderne” (p. 196). “Gli esperti di cultura cinese contemporanea”, continua Quammen, “la chiamano l’era delle specialità selvatiche’” in cui “la diversità e la quantità di animali consumati sono cresciute fino ad abbracciare praticamente tutte le creature di terra, di aria o di mare” (p. 196). Una “moda”, dunque, che non riflette penuria e bisogni primari, bensì “nuovi bisogni di ostentazione e consumo di beni di lusso” (p. 197). Sono osservazioni importantissime, che non possiamo lasciar correre, che devono farci riflettere su quali sia l’origine profonda di pandemie di questo tipo. Nei wet markets, dove si vendono animali vivi di ogni genere, domestici o selvatici, in condizioni igieniche precarie, lì ha luogo la diffusione del virus della SARS (e di tanti altri virus!) che procede attraverso una contaminazione in grado di colpire diverse specie animali. Nei mercati di animali in Cina, che Quammen definisce “manicomio zoologico”, troviamo di tutto, dagli animali malati o con ferite aperte di cui nessuno si prende cura alle “gabbie a rete, impilate una sull’altra” dove “le deiezioni degli animali posti in alto cadono su quelli in basso” (p. 198). L’epidemia, riporta Quammen facendo riferimento agli studi compiuti dal gruppo capitanato dal virologo Wendong Li, era dovuta sostanzialmente alla “promiscuità”, responsabile di aver “causato lo spillover e l’inizio di un ciclo in cui l’infezione non si spegneva per la costante presenza di animali in grado di contagiare” (p. 205).
L’epidemia SARS-COVID (del 2003) fu contenuta e in seguito pare che la moda “degli animali selvatici” fosse passata alla clandestinità – ma soltanto per quanto riguarda il governo locale, dell’area cioè da cui tutto era partito. In realtà, in Cina il mercato di animali selvatici ha continuato a essere consentito sino a oggi, portando – presumibilmente? – alle consequenze nefaste che vediamo oggi. E infatti, nel 2012 Quammen, cioè quasi dieci anni più tardi, si chiedeva: “Quando avverrà la prossima epidemia?” e “Che cosa abbiamo imparato dalla crisi della SARS?” e concludeva: “A leggere questi ultimi articoli, sembra proprio che ‘l’umanità l’ha scampata bella’” e che “gli avvenimenti avrebbero potuto prendere una piega ben peggiore” (p. 217). Siamo arrivati sino al 2020 e facciamo ancora la stessa domanda di Quammen: cosa (diavolo) abbiamo imparato dal 2003? Eccola, la pandemia che nel 2003 era stata scongiurata, ha dovuto aspettare soltanto qualche anno in più, per esplodere inesorabilmente, ancora una volta in Cina, ancora una volta in quei dannati mercati di animali, per “spostarsi da una città all’altra sulle ali degli aerei, come un angelo della morte” (p. 219).
Soprattutto il capitolo sei del libro si concentra sui virus (cosa sono, quando furono scoperti, come funzionano, come si studiano, per quali vie si trasmettono, chi sono i loro “ospiti”, come mutano e perché alcuni virus mutano molto velocemente, Quammen dice: “i virus a RNA [quindi anche i coronavirus] mutano senza ritegno” ed “evolvono con rapidità, forse più velocemente di ogni altro tipo di organismo terrestre”, cosa che “li rende così sfuggenti, imprevedibili e fastidiosi”, p. 179; ma sulle ‘chiavi’ di entrata e di uscita dei virus e la delicata questione dei vaccini, si veda l’ultimo capitolo, alle pp. 520 e seguenti): leggerlo potrebbe fornire un’utile base d’appoggio per capire meglio le notizie – vere o false che siano – che circolano negli ultimi tempi. Ma non è solo questo, perché il libro non “informa” soltanto ma, in fondo, se lo si vuole leggere in ques’ottica, racconta di straordinarie scoperte, di avventurosi viaggi in luogho esotoci e pericolosi, di “cacce” e di faticose e avvincenti indagini nel mondo animale…
L’ultimo capitolo del libro annuncia una nuova pandemia, profetico, dicono alcuni, ma in realtà non si tratta di essere veggenti o profetici, ma semplicemente di trarre delle conclusioni dagli studi e dagli avvertimenti degli scienziati, disponibili già da tempo e rimasti, per la gran parte, inascoltati. “Moriremo tutti?”: la domanda di molti, più preoccupati che interessati a “capire”, ricordata da Quammen, che ironicamente afferma: “Ho deciso di rispondere sempre di sì. Certo, moriremo tutti. È un fatto inevitabile della natura. La maggior parte di noi, però, soccomberà per cause più banali di un virus emerso di recente da un’anatra, uno scimpanzé o un pipistrello.” (p. 528).
Noi non possiamo fare altro che cercare di capire quegli studi e quei messaggi, spesso troppo specialistici e difficili da comprendere in profondità: “Prima di agire in modo calmo o isterico, con intelligenza o stupidamente, dovremmo conoscere almeno le basi teoriche e le dinamiche di quel che è in gioco. Dovremmo sapere che le recenti epidemie di nuove zoonosi […] fanno parte di un quadro generale più vasto, creato dal genere umano. Dovremmo renderci conto che sono conseguenze di nostre azioni, non accidenti che ci capitano tra capo e collo” (p. 532). Chi può dovrebbe cercare di tradurre le conoscenze specialistiche in un linguaggio accessibile, non con l’intento di allarmare o ‘fare notizia’ (‘fare clic’), non per avere seguaci (o followers), non per vendere o propagandare questa o quella idea politica, o gli interessi di economici di questo o quell’altro. Lo sforzo non è nemmeno quello di ‘far ritornare tutto come era prima’, ma anzi al contrario, quello di riflettere insieme e cercare e mettere in pratica soluzioni nuove ed efficaci non solo per oggi, di fronte a questa pandemia, ma per domani, se vogliamo davvero che ci sia questo domani.
La.F.