È difficile, in questa nostra società frenetica ed in continua evoluzione, ricordarsi e immaginare quali fossero i paesaggi che i nostri avi videro durante la loro esistenza: il nostro occhio ormai si sta abituando all’urbanizzazione e all’antropizzazione.
Per quanto affascinante, è complicato rivivere i paesaggi più antichi e remoti, ma alcuni toponimi possono aiutarci. San Gavino infatti, posto nella pianura del Campidano, segue un andamento preciso: l’abitato è posto a 50 m.s.l.m ed ha il punto più basso al confine con Pabillonis, in località Acqua cotta sulla riva destra del Riu mannu.
Le fonti d’acqua furono sempre preziose per la vita, specialmente quelle che scendono dalla cascata di Sa Spendula e del Riu Seddanus che entrano nel nostro territorio nella zona denominata Figuniedda, raggiungendo poi il fondovalle e unendosi al Riu Bruncu’e fenugu; questo corso d’acqua divide il territorio in due zone, ma spesso era soggetto a straripamenti. A rendere ancora più caratteristico il paesaggio furono da sempre le paludi e le zone umide: le più famose, verso Sanluri, erano quelle di Pascanadi e lo Staini de santu ‘Engiu.
Al tempo dei nuragici è possibile immaginare un territorio molto selvaggio costellato dalle costruzioni megalitiche, ma con l’arrivo dei fenici e poi dei romani, il territorio fu sottoposto ad uno sfruttamento estensivo per la produzione cerealicola; fiorirono diverse “aziende” agricole denominate domus, cortes e villae che andarono ad incidere ancora di più sul paesaggio agrario. L’incolto invece si intensificò con lo sfascio del potere imperiale, favorendo però l’attività pastorale nelle silvae.
Nel Medioevo San Gavino era una villa, ovvero un centro abitato indipendente dai grandi latifondisti laici ed ecclesiastici tipici del mondo romano e della tarda antichità; il suo territorio (detto fundamentu) aveva una parte pubblica – detta populare – che appartiene a tutta la comunità, che se la divide periodicamente secondo le singole necessità e la coltiva a grano, a fave e la lascia incolta seguendo la rotazione triennale; il territorio comprende anche ampi salti e boschi comuni per il bestiame – la così detta struvina, e il patrimonio privato era invece chiuso (denominato cungiaus). L’uso dei cungiaus continuò per diversi secoli: è infatti Raimondo Porru, ma anche Vittorio Angius che a metà del XIX secolo raccontavano dei molti kungiaus chiusi mediante siepe viva di lentischio; non veniva usato il muro per mancanza di pietre. I terreni circondati dalle siepi ricoprivano quindi vari ruoli: difendevano la proprietà, proteggevano le colture dal bestiame vagante e soprattutto regolarizzavano il decorso delle acque.
Tutti questi paesaggi subirono un brusco cambiamento con l’avvento dell’industrializzazione portata dalla Fonderia nel 1932, ma non solo: lo spazio agrario, ed il conseguente panorama, vennero trasformati con la costruzioni di grandi infrastrutture quali la linea ferroviaria Cagliari-Oristano-Porto Torres e la linea privata a scartamento ridotto Montevecchio-San Gavino; custodi antichi e vegliardi, il massiccio del monte Linas e la collina di Monreale rimangono appostati a guardia dei terreni spesso nebbiosi.
Alberto Serra
Per approfondire
CASTI A, Duecento toponimi, 1983.
FOIS B, Territorio e paesaggio agrario nella Sardegna medioevale, 1990.
ORRÙ S, San Gavino Monreale, forme del paesaggio rurale tra passato e presente, 2008.