In questi ultimi mesi non c’è giorno che non si senta parlare di “emergenza migranti”. In perfetto stile italiano, qualsiasi problema, grande o piccolo, diventa “emergenza”. Si è anche visto perché (e a chi) conviene questo costante stato di calamità. Ma senza voler entrare in discorsi che parlerebbero di mafia e malaffare, vorrei piuttosto volare basso e limitarmi a osservare le reazioni delle persone attorno a me. Mi capita infatti sempre più spesso di leggere o sentire parole e frasi piene di livore. Mi stupisce quanto sia facile riversare sempre l’odio sul diverso, sul forestiero, sull’ignoto.
E non è raro sentirsi dare del “buonista” (o del “comunista”, se l’offesa vuole essere maggiore) quando si cerca di spiegare perché la penso diversamente dalla massa di novelli Salvini che sembra aver invaso anche la mia terra. Sì, la Sardegna, da sempre patria di migranti, nel senso che siamo sempre stati “noi” quelli che vanno a “cercare fortuna” altrove, perché qui non c’è lavoro. Curioso come i nostri giovani vadano a “costruirsi un futuro” in paesi più ricchi, mentre un senegalese che arriva in Italia sia un “negro che ci porta via il lavoro”. Riuscirei a capire il discorso (senza essere comunque d’accordo) se abitassi in una terra ricca, da cui nessuno è mai “scappato” per sfuggire alla povertà. Mi riesce più difficile, invece, vedere l’incapacità di provare empatia verso chi fugge da una realtà ben peggiore, per cercare fortuna in Sardegna. Disperati che cercano un paradiso che non c’è, qui da noi.
Sì, lo so, in molti staranno pensando a denti stretti “prenditeli a casa tua“. Troppo facile buttarla in caciara quando mancano argomentazioni razionali. E, in tempi di crisi, a fomentare un popolo facilmente manipolabile (la storia insegna come le più oscure dittature si siano insinuate proprio in seguito a depressioni economiche) ci si mette anche la stampa isolana. Un esempio su tutti sono le cronache quotidiane di tafferugli tra ambulanti e automobilisti nei parcheggi dei centri commerciali. Premettendo che mi capita spesso di fare tappa in parcheggi “presidiati” da migranti, mi capita altrettanto spesso di non comprare niente (non mi basterebbe lo stipendio) ma di fermarmi a fare due chiacchiere con alcuni di loro, senza avere alcun problema.
Basterebbe fermarsi davvero a parlarci guardandoli negli occhi, per accorgersi – meraviglia! – di avere davanti una persona e non un mostro.
Da poco ho avuto modo di parlare con un giovane che, carico di borsone pieno di cianfrusaglie, si è avvicinato per cercare di vendermi qualcosa. Nonostante il mio rifiuto (educato, questo spesso fa la differenza per le loro reazioni: molti miei conterranei si rivolgono agli ambulanti come se fossero animali) ha iniziato a parlarmi del poco lavoro e della sua vita. Abbiamo chiacchierato una decina di minuti: era un fiume in piena. Mi ha raccontato di come sia stato portato qui con la promessa di un “bel lavoro” in un negozio. Invece quando è arrivato in Sardegna gli è stato dato un borsone pieno di fazzoletti, accendini e calze ed è stato scaricato in un parcheggio.
“Mi vergogno di fare questo lavoro” mi ha detto con occhi lucidi, raccontandomi di come sia difficile vendere, di come si senta male a dover infastidire le persone, ma che non ha alternative perché “altrimenti non mangia”. Mi ha raccontato di come abbia speso tutti i suoi soldi per arrivare qua, lasciando la famiglia in Nigeria. Una moglie e una bambina, entrambe bellissime: me le mostra sullo schermo di uno smartphone cinese (sì, anche loro hanno il pollice opponibile e usano i telefoni, anche se molti italiani lo usano come pretesto per dire “vedi, stanno bene”, come se noi non conoscessimo sardi che vanno alle mense dei poveri con l’iPhone in tasca, ajò). Mi racconta di quanto vorrebbe tornare a casa, dove conduceva una vita più dignitosa di quella a cui è stato costretto con l’inganno.
E allora ho capito quanto poco ne sappiamo, quanto poco siamo disposti a fermarci a capire, quanto siamo fortunati a essere nati dalla parte giusta del Mediterraneo. Come lui, ce ne sono tanti: certo, ci sono anche persone disoneste, violente, pericolose. Sono persone, e le brutte persone sono ovunque, indipendentemente dall’etnia. Se noi sardi fossimo un popolo così giusto e puro, non si leggerebbero notizie come l’omicidio di un ragazzino per strada a Orune: non è il primo caso e non sarà l’ultimo. Un sardo ucciso da sardi. Eppure pensiamo a noi stessi come al popolo più nobile e ospitale del mondo.
Magari se si smettesse di parlare di “popoli” o di “migranti” e si iniziasse a parlare semplicemente di “persone”, il mondo diventerebbe davvero un posto migliore.
Simone Usai