“Se non sei parte della soluzione, allora sei parte del problema”. Questo aforisma di un anonimo scrittore, vissuto in chissà quale epoca, oggi mi sembra quanto mai attuale.
Trascorro molto tempo (forse troppo) sui social network, con la scusa di intessere relazioni sociali e professionali utili per il mio lavoro.
Passando in rassegna varie bacheche su Facebook o profili Twitter, salta subito all’occhio sia come io non sia l’unico amante degli aforismi, ma soprattutto quante persone si lamentino della situazione attuale, in particolare della crisi, delle istituzioni e in generale dello Stato.
Ci si lagna un po’ di tutto, per cercare manforte e conforto dai propri contatti, prontissimi a esprimere solidarietà molto virtuale e molto poco reale. Ho sempre delle remore ad affrontare certi argomenti, soprattutto quando si entra nella dimensione privata e personale del dolore e del disagio.
“Ognuno sa il suo”, diceva mio nonno, tuttavia io sono molto meno saggio di lui e voglio provare ad esprimere un concetto che mi tengo dentro da tempo.
Penso che quando si parla di ingiustizia di Stato, immancabilmente la vittima si riconosca dalle lacrime e il colpevole dal piagnisteo.
Ho visto persone messe in ginocchio da un licenziamento, dalla chiusura di un’attività o dal blocco di commesse da parte di un cliente. Ho visto quelle stesse persone ripartire, con lavoro e sudore, senza sbraitare: una manifestazione silenziosa di dignità che non significa arrendersi o farsi calpestare. A loro va la mia stima e la mia ammirazione, a quelle persone che non urlano ma danno quotidianamente il buon esempio, facendo valere i propri diritti nelle giuste sedi.
E le giuste sedi non sono di certo i social network, diventati un vero e proprio canale di sfogo per i piagnistei di troppi individui, che per anni hanno alimentato un sistema che poi li ha fagocitati.
Mi riferisco a tutti coloro che si lamentano delle troppe tasse e hanno sempre fatto “nero” perché tanto “in Italia si fa così“. Mi riferisco a quelle persone che lasciano le cosiddette “stecche” ai fornitori, a quelli che di proposito lasciano debiti su debiti e che non mantengono gli impegni, sapendo che “in Italia si fa così“ e che per recuperare i crediti ci vogliono anni e fior di avvocati. Mi riferisco a quelli che se prendono una multa per divieto di sosta se la prendono col vigile, anziché riconoscere di aver parcheggiato in maniera irregolare. Del resto, chi non ha mai lasciato l’auto in seconda fila o a ridosso di uno stop? Lo sappiamo tutti, “in Italia si fa così“.
Potrei continuare all’infinito con gli esempi, ma questi bastano per inquadrare il tipico “colpevole”, che poi si esibisce in pubblici piagnistei. Il colpevole se la prende con uno Stato vessatorio e crudele, si arrabbia con chi imbroglia e con chi escogita nuovi sistemi per aggirare le regole.
Sono le stesse persone che fanno le crociate contro Equitalia, contro l’aumento dell’IVA, contro la TARSU (o TARES, o TASI, fate voi). Sono coloro che quando lo Stato aumenta le tasse diminuendo i servizi, si indignano: contro i tagli, contro la spending review o contro qualsiasi provvedimento metta mano al loro portafoglio. E senza andare lontano, sono gli stessi individui che insultano i Carabinieri se gli viene ritirata la patente per guida in stato d’ebbrezza e che insultano gli stessi Carabinieri quando un ubriaco investe una ragazzina in pieno centro.
E io mi rivolgo a voi che piagnucolate sui social network, predicando bene e razzolando male, e vi dico che non avete alcun diritto di lamentarvi. No, cari miei, proprio voi avete creato una nazione in cui il più furbo vince, in cui lo Stato può lasciare stecche perché lo fanno tutti, che può rubarvi il futuro come voi lo rubate ai fornitori che non pagate, che può cambiarvi sotto il naso le regole del gioco quando fa più comodo, perché lo Stato lo sa benissimo che “in Italia si fa così”.
Signori miei, vi svelo il segreto di Pulcinella: lo Stato siamo noi. Sì, noi. E purtroppo pure voi, che spesso vi presentate alle elezioni e riuscite a farvi eleggere, portando la vostra “cultura del più furbo” nei palazzi in cui si scrivono le regole del gioco. Un gioco che, quando siete da questa parte del tavolo, quando siete voi il giocatori “deboli”, non vi piace poi tanto. Ed è per questo che la classe politica italiana, spesso, non riesce a trovare soluzioni per risollevare il paese.
Semplicemente perché è lo specchio della società che è chiamata a rappresentare.
Se non saremo noi i primi a cambiare, non possiamo aspettarci che il mondo cambi per noi. Concludo, quindi, come avevo iniziato. “Se non siamo parte della soluzione, allora siamo parte del problema”.
Fonte: Simone Usai, Comprendo