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Siamo un popolo di razzisti?

Facebook ha un potere straordinario: esalta e delinea i lati più spigolosi della personalità della gente. Quelle sfaccettature spesso nascoste che nel “faccia a faccia” non emergono, vuoi per pudore, vuoi perché le reazioni degli interlocutori, spesso, inducono un repentino cambio di argomento. Su internet, invece, ci si sente liberi di dare sfogo alle frustrazioni e ai sentimenti più beceri, certi di non dover sostenere lo sguardo di disgusto di chi ci sta davanti.

Siamo un popolo di razzisti?

Questa forse è una semplificazione, ma rende benissimo l’idea del tipico “leone da tastiera” che, seduto comodamente sul divano di casa propria, inneggia alla rivolta contro i “negri”, alla deportazione degli “zingari”, al rogo alle roulottes o alle baracche degli extracomunitari, all’espulsione dalle scuole italiane dei figli degli immigrati. Concetti aberranti per un qualsiasi paese civilizzato, ancora di più raccapriccianti se provenienti da un vicino di casa, da un conoscente, da un compaesano che salutiamo in fila alle Poste o dal panettiere. Dietro quelle maschere da “cittadini normali” si nascondono dei veri e propri mostri.

Parole forti, vero. Ma come definireste una persona che durante l’alluvione del 18 novembre si augurava che il campo nomadi venisse spazzato via dal Rio Mannu insieme a tutti i suoi abitanti? Se ancora non siete convinti, provate a immaginare una persona (che nemmeno conoscete) auguri quella fine a voi e ai vostri cari.

Provereste dolore, stupore, rabbia? Forse tutte queste cose insieme.

E questo senso di nausea mi assale ogni volta che, ciclicamente, arriva l’invasione barbarica dei “fomentatori d’odio” di ogni genere e specie. Dalle insospettabili madri di famiglia ai ragazzini imberbi, dai giornalisti rampanti alle persone più anziane (che si pensa siano più sagge): una palude di fango maleodorante si stende ai loro piedi. Sì, il razzismo emana un fetore insopportabile, lo si sente anche attraverso il monitor del pc o dello smartphone da 500 € da cui vengono vomitati insulti razzisti, spesso anonimi (perché alcuni hanno sviluppato una forma di “vergogna” e non hanno il coraggio di palesarsi).

Ci chiediamo il perché di tutto questo, quali siano le cause sociali, se sia davvero frutto della crisi, che storicamente porta le masse a cercare un “nemico” che trova sempre nelle minoranze, nei deboli, tra gli ultimi. La storia del ‘900 ci insegna come, durante le grandi crisi che scatenarono le due guerre mondiali, furono proprio le minoranze etniche e religiose ad essere vessate maggiormente. Forse si tratta proprio di questo, di ignoranza.

E forse è per questo che abbiamo bisogno di “Giornate della Memoria” per ricordare i campi di concentramento, le deportazioni, le leggi razziali, le discriminazioni di ogni genere. Perché abbiamo la memoria corta e non ci ricordiamo quali sofferenze insensate siano nate dalla “paura del diverso”.

Anche San Gavino Monreale vive una deriva pericolosa. Dalle leggende mai sopite delle zingare “che rubavano i bambini”, alle proteste sulla presunta assegnazione delle casermette ai profughi libici, fino alle più recenti bufale sul campo nomadi nella periferia del paese.

C’è chi si diverte ad attaccare i deboli, come i ragazzini che, in gruppo, a scuola se la prendevano col piccoletto con gli occhiali. Una forma di bullismo 2.0 che ora coinvolge anche gli adulti, in cerca di un capro espiatorio che giustifichi i propri fallimenti personali. Sono tante ormai le persone che ci chiedono di smentire le false notizie diffuse impunemente da questi individui: lo facciamo sempre e con piacere, nonostante sia inevitabile che, entrando nella palude per combattere questi individui, qualche schizzo di fango possa arrivare su di noi.

Se questo è il prezzo da pagare, noi lo paghiamo volentieri. Non possiamo più stare a guardare. I fomentatori d’odio razziale vanno fermati e se non li combattiamo siamo tutti loro complici.

Fonte: Simone Usai, Comprendo

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