Negli ultimi anni le cronache hanno visto crescere in maniera esponenziale i casi di proteste “clamorose” da parte di aziende e lavoratori in crisi. Sicuramente il mondo del lavoro sta attraversando un periodo nerissimo, quasi disperato, ma ci sono delle domande e delle perplessità per il modo in cui vengono portate avanti alcune manifestazioni e trattative sindacali: sembra quasi che esistano dei lavoratori di serie A e dei lavoratori di serie B.
Pensiamoci, se un muratore perde il proprio lavoro, a causa della crisi del settore edilizio, cosa può fare? Bloccare le vie di accesso al proprio paese? Occupare il municipio? Arrampicarsi sul campanile e minacciare di buttarsi se non gli viene dato un lavoro? No, semplicemente quel muratore può solo rimboccarsi le maniche e cercare un altro lavoro, magari saltuario o a giornata, in attesa di tempi migliori. Non ha alternative. Ognuno di noi ne ha viste tante di persone così, che umilmente hanno ricominciato da zero, con fierezza e dignità.
Nessuno muove un dito per loro, eppure sono una moltitudine: manovali, operatori di call center, giardinieri, fabbri, carpentieri e chi più ne ha, più ne metta. Hanno la sfortuna di lavorare in proprio o per piccole aziende, quindi sono praticamente invisibili per i media. Però, quando si tratta di grandi aziende o industrie, iniziano i caroselli televisivi, che indugiano più sulle azioni degli operai, piuttosto che sulle reali motivazioni dell’agitazione. Attenzione, dico “agitazione”, non “sciopero”. Lo sciopero era un mezzo nobilissimo a disposizione della classe operaia, che è stato spogliato del suo significato più profondo e forse svilito da sindacalisti poco capaci. Lo sciopero un tempo era un messaggio lanciato all’imprenditore, affinché prendesse dei provvedimenti in favore dei lavoratori e migliorasse le condizioni di lavoro o salariali.
Adesso le varie proteste hanno come bersaglio non più l’azienda privata, ma lo Stato. Porti, aeroporti e strade bloccate: piuttosto che danneggiare economicamente i responsabili della crisi di uno stabilimento, si creano disagi agli altri cittadini.
Trovo questo modus operandi profondamente sbagliato, per due motivi. Il primo è quello più semplice: impedire alle altre persone di raggiungere le proprie case o i propri posti di lavoro e “costringerli” ad essere solidali con una data causa, ottiene l’effetto contrario. Viene ottenuta senza dubbio visibilità mediatica, ma l’opinione pubblica non verrà sensibilizzata, anzi. Il secondo motivo è l’indirizzo della protesta: invece che pretendere dall’imprenditore una saggia pianificazione aziendale, che copra i costi e produca utili, si pretende che lo Stato ripiani i debiti di un’azienda che non riesce ad auto-sostenersi (e che probabilmente non sarebbe mai dovuta nascere, ma è sorta per “mangiare” finanziamenti pubblici e poi abbandonare a se stessi i propri dipendenti).
Gli esempi, negli ultimi decenni, sono tantissimi. E i risultati sono sotto gli occhi di tutti: stiamo ancora pagando di tasca nostra, con le nostre tasse, il risanamento della cattiva gestione di grandi industrie automobilistiche, siderurgiche e chimiche; di compagnie aeree e navali; di compagnie elettriche e telefoniche. Tutte risanate con i soldi dei contribuenti. Adesso chiediamoci: un imprenditore ha interesse a produrre utili, se sa che in caso di bancarotta arriverà lo Stato a salvare l’azienda? E perché lo Stato non deve essere assistenzialista, allo stesso modo, con il muratore, il carpentiere o l’impiegato di una piccola ditta che è stato licenziato? La risposta la lasciamo a voi.
Fonte: Simone Usai, Comprendo